Una delle tragedie terziarie del lockdown è stata la coniugazione di patetiche solfe come “andrà tutto bene” e “ne usciremo migliori/diversi”, con una sottintesa e incomprensibile fiducia nell’umanità, già di per sé poco empatica senza pandemia sul groppone.

Per qualcuno sarà stato così, certo, ma andrebbe statisticamente verificato se la purificazione sia avvenuta solo (o quasi esclusivamente) per chi aveva effettivamente tempo e margine per resistere, o addirittura talmente tanto benessere e tesoretti (di vario tipo) per non barcollare sotto i colpi della crisi da lockdown.

Non di belle speranze vive l’uomo, e se già prima le speranze erano relegate in fondo alla classifica delle priorità, non voglio immaginare adesso, con un autunno bollente e di grandi incognite alle porte.

Io stesso scrivevo di scintillanti pratiche zen, di isolamento e preparazione alla ripartenza, consapevole di rivolgermi ad una minoranza ben protetta e con poche ansie, che potesse insomma preoccuparsi di comprare il lievito online e non, invece, di tagliare spazi e vizi per non perdere il lavoro/pagare l’affitto/gestire i figli a casa.
Consapevolezza, altro bel concetto da riempire, o al massimo rivisitare secondo i propri canoni.

Per me gli slogan si sono storpiati in fretta in “andrà tutto meno male, forse” e “ne uscirò leggermente più ansioso”, unito al fatto che cucinare, anche dopo 2 mesi in casa, mi fa schifo uguale.

Ma che cos’è questa sindrome da cashback?

E’ un riflesso piuttosto comune per cui, se nulla (o poco) torna indietro da un impegno diretto, la voglia di mettersi in gioco a gratis cala sensibilmente.
Tanto più se oltre al tempo vengono richiesti contenuti e disponibilità.
Tanto più se le organizzazioni sono complesse e su più livelli.
Tanto più se le organizzazioni sono partiti.
Tanto più, alla fine, se questo partito è il PD.

I due mesi di isolamento hanno messo a dura prova la tenuta del nostro circolo: niente eventi, niente incontri, solo progetti (tanti) che rischiavano di frantumarsi contro una realtà tumultuosa e povera di speranze.
E invece, da maggio, nessuno di noi ha sofferto della sindrome da cashback, anzi: ci siamo tirati su le maniche, riversando in saletta tutto quello che abbiamo maturato nei nostri salotti, vedendo riprendere forma ad un progetto bello e imperfetto, fatto di scommesse (gli articoli, gli incontri, le persone da
coinvolgere) e necessità (la festa, i soldi, le iniziative).

Ci siamo scontrati con le difficoltà di chi non fa per mestiere quello che fa con passione, spesso risolvendo la prima mancanza con l’abbondanza di tutto il resto.

Sbagliando e riprovando, senza pretese di essere infallibili.

Alla fine il cashback non è ricchezza, ma un riconoscimento al consumo; è uno sconto su un valore non più in tuo possesso, un contentino sulla fiducia, un deprezzamento di una prestazione.

Brandelli di un minimo che ritorna, a fronte di una più complessa realtà da costruire. E costruire costa fatica.

Ma cosa da’ più soddisfazione? Qualcuno risponderebbe il cashback.
Non io, non noi.

Lorenzo Gualandi