di Dario Mantovani

Ieri mattina è morta Renata Valeriani: è un nome che dice poco ai tanti nuovi molinellesi degli ultimi 20 anni, ma che dice moltissimo a chi ha una più profonda conoscenza delle cose a proposito della storia di questo paese. Ricordo il volto commosso di Renata quando a fine 2013 dedicammo alla memoria di Walter Tinarelli il circolo del Partito Democratico di Molinella: era una fredda domenica mattina invernale, scoprimmo una targa e fu come se qualcosa dopo tanto tempo lasciasse passare dell’aria. Un risarcimento tardivo, ma sentito. E per un attimo dietro la figura di Walter non litigarono le mille anime che già allora animavano la sinistra molinellese e non solo.

Bisognerebbe ripartire dall’inizio: chi era Walter Tinarelli? Un comunista, di quelli che sarebbero potuti uscire dalla penna di Guareschi. Ma non un comunista qualunque: il comunista più importante di quella storia, di quella parte politica, su territorio molinellese a tutto il ‘900. Aveva l’intelligenza che bastava alle sue mani, ma sapeva essere sveglio e pragmatico. Ha cresciuto quasi tutte le generazioni passate dalle “botteghe oscure” di via del Lavoro:per inciso, quella di mio padre, la mia e tutto quello che c’è passato in mezzo.

Fu un riformista? No, non lo fu. Memorabili i suoi scontri dialettici in consiglio comunale con Martoni, con i passaggi salienti sottolineati dall’inflessione dialettale (salvo poi parlare, e non poco, con Martoni privatamente: perché gli accordi, nella politica di allora, quando si facevano dovevano salvare delle apparenze). Dopo la caduta nel muro divenne più aperturista e fece in tempo a vedere la vittoria elle elettorale del 1995 ( a suo modo storica) e la sconfitta del 2004: da qui in avanti cercò le convergenze anche con la socialdemocrazia locale, nel tentativo di non regalare quei voti al centrodestra nelle future prospettive. Conversione sulla via di Damasco? Non credo. Logica di stampo maoista: non importa di che colore sia il gatto, l’importante è che uccida il topo.

A lui devo la mia prima elezione in consiglio comunale (fece arrivare qualche preferenza) assieme al lavoro di un altro compagno dal passo pesante, Sanzio Melandri, morto anche lui da anni: Sanzio pochi mesi prima di morire presagì la fine e si andò a far fotografare ben vestito con l’unità in tasca. Erano altri tempi e altri uomini.

A Walter ho dedicato una via e organizzato una mostra che ha celebrato la sua figura: nel mio ufficio c’è una foto in cui come massimo dirigente del PCI locale riceve a Molinella la delegazione del partito finlandese. Con quelle sopracciglia nere e i capelli già bianchi, lo sguardo dardeggiante e le mani consumate sembra un dirigente sovietico. Ma sapeva anche sorridere e me lo ricordo felice in una foto all’inaugurazione della nuova sede del partito con Don Carlo Federici: i sovietici non sapevano sorridere.

Parlava di politica e credeva nella politica.
Esisteva solo la politica. E molti anni dopo ho capito che aveva ragione: tutto è politica, esiste solo la politica. Tutto il resto è residuale, al massimo complementare, parte del disegno dove la politica è il teatro dove si svolge l’attività umana. E molta di quella attività è risibile, piccolo borghese, di scarsa qualità se non c’è un’idea di mondo dietro. Conta solo la politica, e con essa il risultato: di cosa altro diavolo varrebbe mai la pena di occuparsi?

Il carattere era burbero, soprattutto con i suoi (“si possono sferzare solo i cavalli che si hanno, non quelli che non si hanno”) e i suoi giudizi erano taglienti: nel 2004, dopo la sconfitta delle amministrative, descrisse uno dei dirigenti del tempo come un “segretario di seconda battuta” davanti a un direttivo affollato, modo gentile e crudele per dire che lo considerava politicamente una mezzasega.

Era un uomo dei tempi suoi: credeva nei diritti sociali e forse la sinistra farebbe bene ad occuparsene anche oggi, invece che occuparsi di paillettes. Lavoro, casa, salario: mica bruscolini.

A quelli che oggi pensano che una certa sinistra non sarebbe attualmente iscritta al PD, dico due parole: col cavolo. Walter avrebbe avuto le sue idee ma odiava gli scissionisti, a destra come a sinistra, come poi la maggior parte del corpaccione dei comunisti che fin dai tempi di Togliatti descriveva chi se ne andava come “i pidocchi sul crine di un cavallo di razza”. Contava l’unità, anche quando era falsa: e su questo non saremmo andati d’accordo.
Ma è stato un uomo politico, nel senso pieno del termine. E questo è il più grande riconoscimento che uno possa dargli oggi, a più di dieci anni dalla scomparsa.

E non ha mai preso niente, trattenuto niente, preteso niente. Scriviamolo, scriviamolo, di quanto invece ha dato e magari ha anche perso, “inseguendo il sogno che conduce l’uomo alla pazzia”.

Erano altri tempi. Probabilmente altri uomini. I tempi e gli uomini di quando c’era Tinarelli.