Tempi duri per i costruttori, per quelli veri, non gli opportunisti sulla linea del fuorigioco pronti a staccarsi dall’anonimato del gruppo misto per i classici 15 minuti di notorietà.

Ritornano le tirate di giacca, gli screenshot conservati in vetrinette pronti allo sfoggio, gli insulti e gli strali, i sinonimi che si oppongono, responsabili contro trasformisti.

I punti fermi, in questa storia, sono due: la grave crisi pandemica che tutto il mondo sta affrontando e i miliardi alla salute, passati da 9 a 20 nel giro di qualche giorno (in ritardo) nel processo di composizione dell’immenso piano di rilancio europeo, che coinvolge anche (e soprattutto) l’Italia.

I due punti fermi, quindi: uno è un processo, l’altro un risultato.

La logica vorrebbe che, ottenuto un risultato, si ritorni al processo principale, e cioè governare una Paese stremato dalla pandemia, dalla crisi economica e dalle restrizioni a colori.

E invece, a poco più di due settimane dalla fine del terribile 2020, ci troviamo non con uno, ma con due processi in corso: la grave crisi pandemica e una sorprendente crisi di governo.

A chi scrive l’esperimento PD-5 Stelle piace poco: è il compromesso al ribasso di un patto di non belligeranza, un governicchio che sta in equilibrio su un tappeto rigonfio di insulti e polemiche ora trattenute per il bene comune: evitare il governo della destra. Che, per chi non l’avesse ancora capito, è solo uno scenario rimandato, un cambio di rotta ineludibile e che ci toccherà.

Bene così, è la democrazia, ma sembra non averlo in mente né chi questa crisi l’ha creata (e non si sa se vorrà anche chiuderla, per esempio) né chi sta cercando di evitarla.

Ai tiratori di giacche vorrei dire questo: non è che all’improvviso tutti (o forse qualcuno sì) si premono il cuscino sulla faccia fingendo di non sapere chi sia o cosa voglia Renzi.

Anzi, il declino dallo sbandierato 40% all’attuale 3% basterebbe per dare una luce politica precisa ai cambi di rotta improvvisi (piacciano o no) di un protagonista della politica italiana degli ultimi anni.

Piaccia o no, faccia più o meno comodo scaricarlo oggi, ci si dimentica sempre il contesto: Renzi per primo ha contribuito a creare un governo in sfregio a moralismi più o meno triti: la paura dell’uomo forte e dei pieni poteri (com’era lui, come avrebbe voluto lui) e l’opposizione personal personalistica a Salvini (quella che la destra e la parte progressista fuori dal Pd ha avuto, ai tempi, nei confronti dello stesso Renzi).

Fa sorridere, se non fosse uno scivolamento così drammaticamente grottesco.

Qui non ho interesse a dispensare colpe o giudicare strategie: da un certo punto di vista, è davvero questa la politica. Renzi ha il diritto di fare quello che vuole, così come il Pd ha avuto il diritto di imbarcarsi in questa navigazione a vista (o, ancora peggio, strutturale) con il Movimento 5 Stelle: le reputo entrambe scelte sbagliate, ed entrambe per contesto.

Le elezioni non fanno paura per il fatto di essere elezioni – anche se lo scenario sarà quello descritto sopra, e allora scegliete se preoccuparvi o meno – ma perché il contesto sanitario, organizzativo e mediatico (in rigoroso ordine) non sembrano pronti a reggere la pressione di 4-5 mesi di campagna elettorale.

A vaccinazioni in corso.

A Recovery Plan da sviluppare.

E penso sia un problema: sono piani distinti che dovrebbero camminare da soli, scindendo l’interesse pubblico dal tornaconto personale.

Quindi, tornando ai tiratori di giacche che non vedevano l’ora di poter tirare fuori dall’archivio personale tutti gli orgasmi mancati sulla disfatta di Renzi: bisognerebbe finirla a dare un volto alle proprie pulsioni.

Renzi ha rappresentato il Pd a suo modo, a tratti controverso, ma guidato da un progetto che allora era chiaro e strategico nell’Italia che avrebbe poi incoronato la Lega e la destra più populista: ristabilire una connessione europea, di centrosinistra (senza trattino), affrontando tematiche che alla destra erano ormai state appaltate e mai più riconquistabili.

Smettere di essere una casa di alcuni, e diventare quella di tutti.

Il progetto, dopo mille e passa giorni (come lo stesso vanitoso ex premier ama ricordare) è fallito.

Dopo promesse e risultati più o meno condivisibili, Renzi ha perso: succede, è la democrazia, e bisogna farsene una ragione.

Certo è che tutto mi sarei aspettato che ritrovarmi al governo con uno dei partiti (finiamola con ‘sta cosa del Movimento) che più ha osteggiato, insultato e delegittimato l’opera nazionale e locale (anzi: soprattutto locale) del Partito Democratico, che avrà tanti difetti ma ha strutture e reti sul territorio – che possono poi funzionare più o meno bene; tanto meno mi sarei aspettato di veder governare insieme Renzi, Zingaretti e Di Maio.

Ma l’anti-salvinismo, a parte ricordarmi qualcosa di una stagione della sinistra vecchia di una ventina d’anni, non può essere abbastanza, e di sicuro non paga fra gli indecisi, fra le categorie di cui una volta la sinistra era voce mentre oggi è solo patina da prima pagina.

Rifiuto il superamento delle categorie (so cosa è destra, e cosa non lo è, ma soprattutto cosa è contendibile), ma va preso atto del cambio di paradigma culturale e sociale che ha portato le destre molto più vicino alle persone, molto più efficaci nel linguaggio e nelle proposte di risoluzione dei conflitti (e cioè alimentarli, non risolverli).

Speriamo tutti sia finita la stagione della delegittimazione: bisogna capire perché questo simbolo, questa storia, questi valori non piacciono più.

Bisogna capire cosa serve, non solo chi rappresentare.

E capire come i social non siano la voce di un palco, ma l’urlo in un orecchio.

Nelle ultime settimane si è sbrodolato troppo su cosa può fare o meno una piattaforma, se può spingersi fino a chiudere account, limitare un profilo, silenziare una voce.

Tutti abbiamo sottoscritto delle linee guida: io, come Mario Rossi, come Donald Trump.

Con l’aggravante che Donald Trump è il Presidente degli Stati Uniti, e quello che dice ha un effetto e una potenza senza dubbio superiore rispetto a quello che potrei starnazzare io – e verrei comunque bloccato.

Approcciato l’argomento, vorrei spingermi oltre, su quello che penso sia il problema di fondo: la comunicazione politica, i partiti, l’ego dei singoli parlamentari, opinionisti e giornalisti, si sono consegnati ai social con estrema facilità.

Perdendo reputazione e capacità di filtro, raschiando l’impossibile dal click bait e dalle pubblicità ingannevoli.

La domanda non è se Dorsey o Zuckerberg abbiano fatto bene o no a bloccare Trump – io qui mi fermo, perché più di un parere personale non posso dare, non ho elementi giuridici o etici per approfondire.

Ma quando si è ribaltato il rapporto di forza tra social come mezzo e politica come messaggio.

Oggi i social sono loro stessi il messaggio: o ci sei, o non esisti.

Al di là di ciò che dici.

Lorenzo Gualandi
Segreteria del PD Molinella