di Lorenzo Gualandi
Finite canzoncine, #resilienza e illuminanti consigli su come scavigliarci sul tappetino da yoga in camera, siamo tornati i sempreverdi bisbetici di prima.
Ad animare questa quarantena – solo ieri prolungata fino al 13 aprile (almeno) – ci hanno pensato due polemichette in fila, capaci di rivitalizzare tutti coloro (me compreso, sia chiaro) devastati nel profondo da plasticosi richiami alla responsabilità e al volersi bene.
Due video che hanno corso sul webbe, con protagonisti Urbano Cairo (tri-presidente di LA7, RCS e Torino FC) da una parte, e… no, onestamente non riesco nemmeno a scrivere i nomi: vabbè, quei due che hanno pregato (male) in diretta tv.
Ci siamo capiti, direi.
Da lì, le (s)reazioni (fondatissime) di tutto il mondo giornalistico e intellettuale (accezione positiva – ma guarda te se devo specificarlo…), contro la diversa strumentalizzazione del dolore, del canale, ma soprattutto dell’intelligenza (nel caso dei due che pregano: la nostra, non certo la loro).
Addirittura una campagna di Change.org per cancellare la trasmissione sul cinque (come dicevo da piccolo, e dico ancora), mentre su Cairo – che esortava i propri collaboratori ad andare “in pista e al telefono, stando poco in riunione se non brevi e strettamente necessarie”, per qualcosa di scandaloso: i soldi – uno stuolo di commenti negativi per l’inopportunità di parlare delle famiglie chiuse in casa come target. Insomma, come potete capire dal video (che in pochi giorni ha superato le 30.000 visualizzazioni), un discorso motivazionale nei confronti dei suoi collaboratori, discorso in cui fa nomi e cifre di grandi aziende, e per questo il sospetto che il video non dovesse divenire di dominio pubblico.
Perché accomunare due prestazioni così diverse – Cairo, piaccia o meno, è pur sempre un imprenditore a capo di due gruppi editoriali e di una squadra di calcio; gli altri due, non sanno come passare i pomeriggi?
Perché, a meno che non mi sia perso qualcosa io, il potere del telecomando lo ha pur sempre il consumatore.
Non vi piace Cairo? Croce sopra a LA7 (povero Chicco), Corriere e tutto il resto.
Non vi piacciono quelli che pregano? Croce sopra al 5, mentre all’altro – la prossima volta – pensateci due volte prima di mettergliela sul simbolo, quella croce.
Il punto è che, continuando a reagire a problemi nuovi (?) con schemi vecchi, non avremo mai effetto sul presente, tanto meno sul futuro.
Finché la televisione non sarà fatta di qualità, ma di quantità e incidenza della pubblicità, quello che possiamo fare è spegnere quel dannato apparecchio – magari abbonandoci ad altri giornali, sostenendo altri canali, insomma: ognuno trovando il proprio spazio di espressione e fruizione.
Finché Cairo non farà altro che muoversi in uno scenario in cui, piaccia o no, la pubblicità serve per finanziare i prodotti, e se non si arriva per primi ci sono altri che se la prendono, saremo pronti ad indignarci per niente.
Finché pregare in diretta inciderà sull’audience (e sulla popolarità politica), e finché la religione (ma come altre cose più intime e personali) verrà usata come leva verso il pubblico (e per pubblico intendo quel pubblico specifico, che si guarda quella merda – oh, volevo dirlo dall’inizio), saremo qui a firmare petizioni che contano quanto me in post basso (se non la capite: poco, molto poco).
Finché non sposteremo il discorso sulle radici della questione – è possibile muoversi in alternativa? – saremo sempre qui ad alimentare chi gioca sulla confusione, sulle fazioni, sulla polemichetta.
Temo che, più delle petizioni e dei moti d’orgoglio, sarà anche un discorso generazionale: i nostri fratelli, figli, cugini e amici sono i consumatori di domani, i polli da ingrassare oggi.
Se noi non siamo in prima fila a convincerci – e poi convincerli – che ci sono altri modi di informarsi, di interagire, di produrre e creare contenuti di qualità, allora saremo sempre qui a raccontarci che dare un’occhiata al Grande Fratello Vip, beh, è solo il modo per avere “un giudizio rotondo e completo”.
No, non è così.
Come la politica riflette le nostre pulsioni, così il mezzo con cui ci intratteniamo riflette quello che desideriamo.
“Ma io non desidero certo le preghiere in tivù, o Mina che canta per 3 minuti 547 volte al giorno fra un TG e l’altro!”, vi starete dicendo – in caso contrario, cancellatemi dai vostri contatti.
Esatto, esattamente, proprio così: riconoscere cosa non ci rappresenta, ci permetterà in futuro di fare altre scelte, prendere altre strade, riequilibrare i nostri consumi.
Dobbiamo essere noi a farlo, o – come sempre – qualcun altro lo farà per noi.