di Marco Calcinai
L’emergenza Coronavirus rischia di causare una recessione economica di dimensioni molto profonde. In molti azzardano il paragone con le devastazioni di una guerra, che pare però un tantino esagerato: quando l’emergenza sanitaria finirà, le nostre case, le nostre fabbriche e i nostri ponti (salvo vergognosi crolli dovuti ancora una volta all’incuria della politica) saranno ancora tutti in piedi.
Di certo, è molto alto il rischio di una crisi economica profonda, più seria persino di quella del 2008, e su una cosa sembrano essere tutti d’accordo: non ne verremo fuori senza una vera solidarietà europea.
Se però concordiamo tutti sul ruolo fondamentale dell’Europa per far fronte a una crisi potenzialmente devastante, è altrettanto fondamentale capire bene cosa sia, questa Europa, perché altrimenti le accuse ad essa rivolte possono non significare niente.
E per farlo, bisogna avere ben chiaro che “Europa” e “Unione Europea” non sono la stessa cosa.
Quando parliamo di Europa possiamo intendere poco più che un continente composto da Stati sovrani. Quando invece parliamo di Unione Europea, parliamo di quell’insieme di istituzioni comuni cui questi Stati sovrani hanno deciso di delegare il potere decisionale su alcune, limitate materie.
Ora, una prima precisazione fondamentale: sulle politiche fiscali (come nel caso dei soldi che servono per finanziare le famiglie e le aziende perché si comprino da mangiare e non falliscano) l’Unione Europea non ha alcun potere.
Ci sono infatti materie (non troppe a dire il vero) come il mercato interno, la concorrenza, la pesca e l’agricoltura, su cui a decidere per tutti gli Stati europei è l’Unione Europea con i suoi organi sovranazionali: Commissione Europea, Parlamento Europeo e Consiglio dell’Unione Europea, principalmente.
Ci sono poi altre materie che gli Stati membri hanno deciso di NON delegare all’Unione Europea, e sulle quali quindi ciascuno Stato decide per sé.
Fanno parte di quest’ultimo gruppo le politiche fiscali, sulle quali gli Stati decidono in autonomia. L’unico vincolo (molto vincolante) riguarda i paesi della zona euro, che devono rispettare i famosi vincoli di bilancio: in sostanza, semplificando molto, ciascuno Stato che ha l’euro come moneta può decidere come spendere i soldi dei propri contribuenti, stando attento a non indebitarsi e anzi a ridurre il proprio debito quando questo eccede i parametri stabiliti.
La questione delle politiche fiscali, nella nostra storia recente, è molto importante: ogni Stato della zona euro vuole decidere autonomamente come spendere i soldi dei propri contribuenti, e non vuole che a decidere sia un organo europeo. Questo avviene principalmente per due motivi.
Il primo motivo è che una delle cose che più legittimano il potere sono le politiche fiscali: tu (cittadino) paghi a me (Stato) le tasse e io decido come spendere i tuoi soldi. Nel momento in cui tu (cittadino) queste tasse non le dai a me, ma le dai a un governo comune europeo, io perdo buona parte del mio potere.
Il secondo motivo è che rinunciare all’autonomia sulle politiche fiscali potrebbe dover significare che una parte delle tasse che io (cittadino italiano) pago finiranno per finanziare un altro Stato che viene a trovarsi in una situazione di crisi.
E qui viene il grande tema degli ultimi anni, che è esploso in tutta la sua potenza in questi giorni.
Decenni di politiche fiscali estremamente ballerine ci hanno regalato un enorme debito pubblico e spiacevoli stereotipi. Baby-pensioni, grandi condoni fiscali agli evasori, enormi sprechi di denaro pubblico hanno indebitato spaventosamente le nostre casse statali e hanno creato l’immagine del mediterraneo fannullone, panciuto e semi-corrotto.
E così, quando negli Stati a Nord della zona euro (che hanno tanti difetti ma che su questi temi sono certamente più bravi di noi) si discute sui finanziamenti da concedere agli Stati a Sud per far fronte a una crisi, molti elettori olandesi, tedeschi o finlandesi storcono il naso all’idea di pagare con le proprie tasse per le mancanze dei popoli meridionali.
Insomma, come noi non esitiamo a dipingere con stereotipi ingenerosi gli europei del Nord (e in queste settimane non ci siamo risparmiati sugli accostamenti al nazismo), lo stesso succede nei nostri confronti.
E come da noi gli europeisti (che sono ancora maggioranza) si preoccupano per la mancanza di solidarietà da parte degli altri Stati europei, sostenendo (con ragione) che così si spalancano le porte ai sovranisti anti-UE, allo stesso modo gli europeisti del Nord si preoccupano per dinamiche del tutto opposte: a casa loro, i sovranisti invitano ad abbandonare la grande famiglia europea perché troppi dei soldi dei loro contribuenti finiscono ai fannulloni mediterranei.
Di conseguenza, a Nord, ogni euro che si muove per aiutare gli Stati del Sud va spiegato e fatto digerire all’opinione pubblica, perché i sovranisti sono all’erta, pronti ad accusare “l’Europa” di sperperare i loro denari.
Una bella gara di stereotipi e semplificazioni, insomma, che non fanno che avvelenare il terreno del confronto. Una cosa terribilmente stupida, da una parte e dall’altra del fronte. Tant’è vero che in Germania si stanno moltiplicando gli appelli alla solidarietà, come quello arrivato dal popolare ex cancelliere tedesco Schroeder, che ha lanciato un appello per gli Eurobond e invitato i suoi concittadini a ricordare come, dopo la seconda guerra mondiale, la Germania sia stata aiutata nonostante l’avesse causata.
Non siamo tutti paffuti fannulloni noi, quindi, e non sono tutti nazisti loro.
Certo, si dirà più che giustamente che queste valutazioni non sarebbero nemmeno da fare quando da noi si caricano i cadaveri sui camion militari, e di primo achito ci fa orrore pensare a grigi ministri olandesi o tedeschi che oppongono il proprio veto a misure di solidarietà fiscale che aiutino a far fronte alla crisi. Ma la situazione, per quanto antipatica, è questa. E’ inevitabilmente complessa e come tale va affrontata.
Ed è proprio questo uno dei compiti della politica: occorre sedersi al tavolo e trovare un punto d’incontro tra chi chiede giustamente che siano concessi finanziamenti per fronteggiare una gigantesca crisi per la quale nessuno ha colpe, e chi è preoccupato di trovare meccanismi che rendano più semplice l’idea di doverlo spiegare a casa propria senza il rischio di becere strumentalizzazioni sovraniste.
Serve solidarietà, servono soldi e servono in fretta, e sembra che alla fine, verosimilmente, un accordo verrà trovato attorno al famoso MES.
Dalle premesse, c’è da aspettarsi che i populisti e sovranisti di casa nostra, che hanno finora condotto una battaglia ideologica contro questo meccanismo, faranno a gara per stracciarsi le vesti e gridare allo scandalo, come già stanno iniziando a fare.
Ma cos’è il MES? Semplificando (di nuovo) molto, è un fondo creato dagli Stati della zona euro proprio per evitare di delegare all’Unione Europea il potere in materia di politiche fiscali.
In sostanza, uno Stato che venga a trovarsi in condizioni di grave crisi economica può chiedere al MES (Meccanismo Europeo di Stabilità) che gli venga concesso un finanziamento. Questo finanziamento è concesso in modo condizionato: io ti presto questi soldi, ma solo se tu metti in campo una serie di politiche strutturali condivise nel Consiglio dei Governatori (formato dai ministri delle finanze dei Paesi membri del MES stesso).
Come dire: ora ti prestiamo i soldi, ma siccome finora non sei stato bravo e ti sei indebitato oltre misura, adesso è arrivato il momento di mettersi in riga.
Ora, è ovvio che quando a causare il pericolo di una grave crisi economica è un virus, la colpa non è dello Stato che ne è stato duramente colpito. Per questo motivo, la quasi totalità degli Stati della zona euro sta chiedendo che, qualora si decida che i finanziamenti debbano arrivare dal MES e non da titoli di debito comuni (gli Eurobond), i soldi siano almeno concessi senza condizioni.
E’ verosimile che l’accordo verrà trovato a metà strada, e le dichiarazioni ufficiali giunte dopo la riunione dell’Eurogruppo di ieri sera (giovedì) sembrano confermarlo: gli Stati otterranno i finanziamenti dal MES, e le condizioni saranno di minima. Probabilmente un impegno a utilizzarli soltanto per far fronte alla crisi sanitaria causata dall’emergenza Covid e non per alleggerire la propria esposizione debitoria pregressa.
E’ sufficiente? Certamente no, ma è comunque un cambio di passo storico, che segue un altro passaggio senza precedenti come la sospensione del patto di stabilità (quei vincoli fiscali comuni di cui sopra) e l’impegno “senza limiti” dichiarato dalla Banca Centrale Europea (giunti, guarda caso, dall’Unione Europea e non dagli Stati sovrani).
E’ inevitabile che l’evolversi della crisi richiederà in futuro impegni ulteriori, su cui andranno prese decisioni che prevedano meccanismi di solidarietà più profondi.
In caso contrario, e cioè se gli Stati d’Europa non risponderanno a questa ultima chiamata, il progetto d’integrazione europea subirebbe una battuta d’arresto che odorerebbe di tragica fine.
E se siamo tutti d’accordo che senza solidarietà europea nessuno Stato della zona euro conserverà intatte le ossa, c’è da augurarsi caldamente che questo benedetto accordo sia raggiunto.