Ovvero come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba

di Alice Cesari

“La verità ci interessa. A volte la temiamo e la fuggiamo, più spesso la desideriamo e la ricerchiamo.” (Verità, S.Caputo, 2015 )

Ma che cos’è la verità? È lecito farsi questa domanda quando il panico di massa imperversa e per vie del tutto irrazionali è la paura a determinare le nostre scelte.

Newt Gingrich, politico americano dirigente del Partito Repubblicano e sostenitore di Trump alle presidenziali del 2016, viene intervistato da una giornalista della CNN sullo stato della criminalità degli USA.
Durante l’intervista – ormai celebre – questo afferma che il tasso di criminalità durante gli anni precedenti (quindi durante l’amministrazione Obama) era aumentato. La giornalista replica che i dati mostrano un calo del tasso: a quel punto Gingrich non controbatte che i dati forniti sono sbagliati, ma afferma che non sono pertinenti con quello che lui stava dicendo, ovvero che l’America è meno sicura e quello che conta è lo stato emotivo dei cittadini a riguardo.

Non contano i dati, ma gli aspetti emotivi. Qui viene fornito un alt-fatto, Gingrich nell’intervista non ha avuto un atteggiamento cognitivo e se all’interno di un dibattito due persone parlano con due atteggiamenti così diversi, non possono comunicare.

La parola alt-fatti viene dall’inglese “alternative facts”, termine introdotto da Kellyann Conway, Consigliere di Trump, quando durante un’intervista per la NBC difende la dichiarazione – falsa – fatta dal portavoce della Casabianca sui numeri dei manifestanti all’inaugurazione di Trump presidente. Il giornalista le chiede come faceva lei a difendere una cosa palesemente falsa e lei risponde che ci sono appunto “fatti alternativi”, sostenendo così una relatività dei giudizi.

Ci sono standard diversi, culture diverse, che determinano quali cose sono vere e quali false. Sono forme di relativismo aletico che danno luogo a prospettive sulla verità molto estreme, anzi che mettono addirittura in dubbio l’idea di avere la verità come scopo di fondo. Questo spiega come le teorie del complotto possano solleticare le convinzioni di così tante persone, nelle quali la verità non è il fondamento, ma è un elemento al servizio del rafforzamento della convinzione del gruppo. Queste teorie cospirazioniste, una delle tante è il terrapiattismo, basano la loro tenuta sui così detti filtri epistemici, ovvero se ad esempio si ritiene che il governo X menta sempre riguardo all’argomento X, questo screditamento funziona da filtro epistemico tale da ignorare automaticamente ogni evidenza rilasciata dal governo.

Portando il dibattito ai giorni correnti, in un articolo illuminante del Corriere della Sera, Paolo Giordano fa interessanti considerazioni in tema Coronavirus, richiamando la divisione fatta in campo epidemiologico sui campioni di persone soggette a ricerca, fra suscettibili, infetti e guariti. Le tre categorie riportate nell’articolo possono essere fatte valere non solo in senso epidemiologico, ma anche in senso epistemologico, se si pensa al doppio senso della parola “virale”. Utilizzato per definire un contenuto molto condiviso e considerato sui social-media, l’aggettivo virale proveniente dal lessico medico diventa emblematico di quanto questa modalità di vivere l’informazione perdendo di vista i fatti, il vero, il ragionamento, sia quanto mai morbosa, ammalante, e renda un corpo sociale prono ad essere attaccato da un virus psichico, quello della sragione.

Forse M. Foucault aveva ragione parlando di s-ragione , forse siamo tutti affetti da un vizio di forma, siamo tutti predisposti ad una vulnerabilità psicologica che ci porta a rimuovere il vero problema che di volta in volta si viene a presentare sul terreno del reale. Attitudine che ci porta ad ammalarci sotterraneamente delle cose, pur di non vederne la complessità intrinseca, le vogliamo reprimere, rimuovere, con farmaci, con meccanismi oscuranti, che nel rimuovere il sintomo rimuovono anche l’informazione stessa che il nostro corpo ci aveva segnalato tramite il flogisto infiammatorio, e quindi non elaboriamo mai il male. Progressivamente il sistema immunitario si indebolisce perché disabituato a vederlo, il male, incapace di gestirlo diventa sempre meno immune, il corpo (sociale) diventa sempre più vulnerabile agli attacchi virali, agli alt-fatti, alle teorie del complotto, alle scie chimiche, ai rettiliani, alle leggende, alle superstizioni, al pregiudizio, in altre parole alla paura.

Forse quello che non vediamo è che c’è un ciclo che avviene, nel cosmo e dentro il nostro corpo, e la guarigione, la salute, passa anche per l’infiammazione. La malattia non va fuggita, ma può essere concepita come informazione da elaborare, e solo questa elaborazione scevra da repressione, porta poi al processo di guarigione. Solo metabolizzando le informazioni possiamo vivere nel terreno del reale, del vero, solo processando informazioni che per quanto brutte, batteriche e complesse esse siano, queste accadono, possono anche traumatizzare, ma vanno metabolizzate, in qualche modo vissute, pensate.

Quale antidoto per questo flogisto? Che dobbiamo rimanere lucidi, pensanti, raziocinanti? Forse nemmeno l’approccio razionalista è completo, perché il povero Gingrich nell’intercettare l’emotivo delle persone non ha detto una cosa completamente sbagliata: esiste il piano dei fatti, della scienza, della ragione, ma l’uomo è anche sragione, è anche emozione. Quindi forse più che rimanere razionali, dobbiamo rimanere integri. Consentirci di s-ragionare, non nel senso di non-ragionare, ma del senso più creativo possibile di dare spazio alla nostra follia, non rimuoverla, non reprimerla, rispettare anche quella parte, non farla sublimare in malattia, non farla indebolire l’organismo e renderlo prono al virus.

Se l’immunità totale dalle false notizie è impossibile, rimanere consapevoli e sapere individuare il falso, ecco questo può corrispondere ad una diagnosi. Il vaccino? È la conoscenza.