Quando avevo diciott’anni (non una vita fa, ma abbastanza per poterne parlare con distacco), tutto sembrava fatto apposta contro di me. Era una condizione generazionale, attraverso cui passano e passeranno tutti i ragazzetti che sono all’apice di uno dei momenti più importanti della loro vita.
Quando io avevo diciott’anni provavo a suonicchiare in un gruppo, i Cripple Old Men.
Eravamo carichi, e cercavamo date in qualsiasi posto, senza distinzione, purché si potesse fare casino e conoscere gente.
Una di quelle date è stata in un luogo adesso vuoto, anzi, svuotato, senza più segni (almeno visibili) di quello che c’era: l’Anfiteatro. Anzi: l’Anfi.
Murales, campetto, rampe. Questo il trittico che si dipingeva sugli scaloni roventi dal sole d’estate, dove decine di ragazzi si trovavano nei pomeriggi liberi.
L’orbita gravitazionale dell’Anfi comprendeva tutti: dai più maturi ai più giovani (annata 1991, che voleva dire sedic’anni). C’era chi andava in skate, chi giocava a basket, chi si sdraiava sul prato, chi faceva le tonde in bicicletta.
Poi qualcosa s’è rotto.
Sono bastati una serie di errori: qualche canna, schiamazzi, diverbi tra i ragazzi non finiti proprio a tarallucci e vino.
Non c’è stato modo di rimediare. La soluzione è stata una, più o meno improvvisa, e abbastanza affrettata: demolire tutto.
“Ragazzi, venite a suonare, faremo una grande serata di festa e concerti perchè non vogliamo che ci portino via l’Anfi“.
Noi andammo, e l’elettricità provata sul palchetto montato per l’occasione è stata qualcosa di unico, di importante, perché sapevamo di essere lì per uno scopo.
Si stava provando di far vedere che anche noi sapevamo risollevarci, sapevamo raccoglierci per organizzare insieme qualcosa di bello.
L’Anfi era pieno di gente, di suoni, di odori di cibo, di bicchieri di plastica rotti, di colori, di murales.
Si stava scatenando qualcosa.
Qualcosa che, comunque, non sarebbe servito.
Aprile 2007, l’Anfi viene demolito.
Ci si interroga ancora sui motivi, se davvero non bastasse cercare un compromesso con chi quegli spazi li rendeva vivi.
Ci si chiede ancora se un dialogo sia stato tentato, almeno.
Quelle macerie sono rimaste lì per più di un anno, ma ancora adesso non se ne sono andate: sono state malamente spazzate sotto il tappeto.
E’ proprio questo che si voleva?
Perché poi le conseguenze sono automatiche: i problemi si spostano, cambiano solo scenario, non muoiono di punto in bianco. Non se ne vanno con la polvere, ma si trascinano subdole fino a quando non riscoppiano di nuovo.
Provate a girare i bar del centro verso metà pomeriggio di qualsiasi giorno della settimana: troverete orde di ragazzini annoiati, che ammazzano i pomeriggi nei peggio modi.
Sfiduciati. Disinteressati. Passivi.
E allora che si fa, si demolisce il bar?
Si continua a demolire finché non rimane più niente?
No, va ripensato il modo di porsi: più apertura da parte delle associazioni, più possibilità di sbagliare senza aver paura, più interesse della comunità nei confronti di un problema al limite sociale.
Di Anfi ne è stato abbattuto solo uno, ma quanti ne sono sorti in questi sette anni?
E allora, se l’Anfi può essere la metafora di un decadimento generazionale diffuso a cui si vuole porre rimedio, dalla struttura stessa abbattuta nel 2007 si potrebbe ripartire, riprendere slancio.
Un campo da basket, due rampe, libertà di organizzare concerti ed eventi culturali.
Troppo tempo si è perso a cercare i colpevoli, a correre dietro a chi non stava al proprio posto, a togliere piuttosto che dare. E pure noi, non vogliamo cercare colpevoli, o addossare colpe per qualcosa di così grande.
Ma se per una volta cercassimo di capirla quest’inquietudine, non di combatterla, probabilmente qualcosa indietro tornerebbe.
Stimoli. Segnali. Battiti.
Io, noi, tutti ci crediamo, perchè sarebbe stupido e pessimista pensare che tutto debba rimanere com’è.
Niente sarà mai perfetto, ma sempre meglio della polvere sotto al tappeto.
Lorenzo Gualandi
PD Molinella
Ho letto il suo articolo “La polvere sotto il tappeto”, un anno fa e ho deciso di risponderle a distanza di un anno esatto. Non è stata una decisione premeditata ma forse neanche casuale. Una risposta che per il tempo trascorso è “maturata” nel senso letterale del termine e che ha prodotto a fasi alterne, diversi spunti di riflessione e ripensamenti; forse volevo che una replica arrivasse lontana dal clima della campagna elettorale ? Quest’ultima potrebbe essere un’ottima giustificazione per un adulto, un buon modo per raccontarsela. Ma probabilmente la verità è che le scrivo in ritardo, ho rinviato nel tempo la risposta per un velato senso di colpa, taciuto almeno in parte, anche a me stesso. Un sentimento che nasce dal fatto che forse sono stato uno spettatore troppo passivo di quanto successo in quegli anni intorno all’anfiteatro e ai ragazzi che lo frequentavano. Mi spiego: sono un cittadino di Via Mazzini che abita da 25 anni nello stradello prospiciente il parco dove era collocato l’anfiteatro. Vi abito da quando ancora non c’era uno stradello di passaggio pedonale, c’era un muro che chiudeva quel passaggio. Al di la del muro c’era un parco, con un campo di basket / pallavolo, con i canestri di tipo professionale, con i giochi per i bambini, con le panchine, con i lampioni. Non ci andava mai nessuno, era un paesaggio urbano deserto da film “Io sono leggenda”. Poi il muro è stato abbattuto e costruito lo stradello di comunicazione che è stato un vantaggio per tutti. Dopo un po’ il parco ha iniziato a popolarsi di ragazzi, rendendo quello spazio vivo, vivace, vissuto. Era una forma di aggregazione giovanile spontanea con tutte le sue contraddizioni che lei riporta in parte nell’articolo. Ho però l’impressione che lei è arrivato in un dato momento o che in alcuni momenti particolari non ci fosse. Non le era chiesto di esserci ed è normale che fosse così perché in quanto adolescente non poteva avere impegni e responsabilità se non nei confronti di se stesso. Però in quel periodo, ai bei momenti di vita adolescenziale si sono accompagnati anche comportamenti poco edificanti: sono state divelti e poi tolti i canestri, i giochi per i bambini, le panchine, sono stati rotti i lampioni, è stato semi sradicato il pavimento del campo di basket e abbattuto in parte un muretto. Ha resistito l’altalena ma poi ha capitolato anche quella. Sono state scardinate le porte del magazzino sotto i gradoni dell’anfiteatro e sparsi nel prato tavolini e sedie di plastica bianca, di proprietà del Comune, credo. Il tutto condito da bottiglie rotte in qua e in là e qualche cestino di rifiuti bruciato. Comunque la si pensi, la mancanza di rispetto per il bene comune era diventato un problema vero. La soluzione difensiva degli adulti in quel momento non è stato il dialogo, il cercare di capire e il cercare di intervenire affrontando i comportamenti eccessivi degli adolescenti, aprendo un canale di comunicazione con loro. Si è adottata una soluzione radicale e si abbattuto l’anfiteatro. Si è eliminato il fastidio per gli adulti e si sono lasciati i giovani al loro destino, ad andare fare casino da un’altra parte e far casino a se stessi nell’indifferenza di tutti.
L’anfiteatro non era una bellezza architettonica ma forse quello spazio e quella struttura più che eliminarle andavano ristrutturate, modificate e recuperate come andava recuperato il rapporto con quella generazione di ragazzi e la capacità degli adulti di stabilire e costruire relazioni con loro. Anche io ho usato nell’iniziare a scrivere il termine “risponderle”, come ci fosse un’intenzione inconsapevole di rispondere, nel senso di ributtare indietro qualcosa, smentendo i fatti ed allontanandosi a distanza di sicurezza dall’interlocutore. Un’intenzione che in realtà non mi appartiene. Ma credo che appartenesse all’amministrazione che vi ha preceduto, come era propria di certe tendenze politiche nazionali di quel periodo, in tema di welfare, poco inclini all’inclusione e all’integrazione sociale, al favorire l’aggregazione comunitaria non solo dei giovani. Politiche più che altro orientate ad una logica dei “respingimenti, dell’esclusione e dell’indifferenza ai problemi ed ai bisogni sociali.
L’indifferenza per la distruzione e il permanere delle macerie dell’anfiteatro, è stata simbolicamente l’atteggiamento verso l’altro da sé e nei confronti dei suoi bisogni.
Poi il parco, se così si può chiamare, abbandonato dai giovani molinellesi è stato via via occupato di giorno dai giovani immigrati pakistani, soprattutto per giocare a cricket. Di sera invece dalle donne e dalle ragazze pakistane che con il favore del buio, garante di una loro intimità e pudore, si sono prese uno spazio di libertà possibile, senza il peso opprimente del potere maschile. E questo è successo per qualche anno e per fortuna nell’indifferenza degli altri, perché un interessamento italico in questo caso (per come si manifesta “normalmente”) sarebbe risultato dereterio se non devastante e carico di pregiudizi.
L’indifferenza come male minore a fronte dell’assenza di politiche di integrazione nei confronti di queste persone, delle donne e dei giovani immigrati ?
Si, lei ha ragione, di polvere sotto il tappeto in questi anni ne è stata messa parecchio. Quindi il lavoro da fare per ripulire e rimettere a posto non è poco, soprattutto se si pensa anche ai dati sulla diffusione dell’uso delle sostanze e dei comportamenti e degli stili di vita che con esse si intrecciano.
Le auguro buon lavoro amministratore e benvenuto tra gli adulti.