Con le pressioni di Renzi e le ambizioni di Juncker una nuova Europa più flessibile può mettere l’austerità in secondo piano e rilanciare la crescita.

A volte occorre guardare le cose da fuori per comprenderle meglio. È un’idea, questa, che tutti abbiamo sentito proporre almeno una volta. Mentre scrivo queste righe, accettando con piacere la proposta dei ragazzi della redazione, mi rendo conto di quanto questo sia non solo vero, ma forse addirittura necessario.
In questi mesi, in cui in Italia si stanno portando avanti profondi e radicali cambiamenti (con annessi gli scossoni e le rotture che questi cambiamenti, fisiologicamente comportano), ho l’insperata fortuna di trovarmi a osservare le cose di casa nostra da un punto d’osservazione privilegiato. Mi trovo infatti a svolgere un tirocinio per un’agenzia stampa a Bruxelles, lavorando all’interno degli edifici in cui vengono prese le decisioni a livello comunitario: Parlamento europeo, Commissione e Consiglio. Da qui mi sono trovato ad osservare le vicende italiane degli ultimi mesi: gli accesi dibattiti sulla riforma del Senato, sulla legge elettorale, sul Jobs Act e sulla Legge di Stabilità; gli scontri tra Polizia e lavoratori di Terni; la rivolta delle grandi periferie, in cui è in atto una pietosa guerra tra poveri, tra abbienti e immigrati; l’ascesa della Lega di Salvini, portatrice di semplicistici e pericolosi messaggi carichi di odio e di qualunquismo; il declino del centrodestra, che paga il conto dei due decenni in cui ha rinunciato a darsi una base e un’anima che non fossero quelle dell’indiscusso leader Berlusconi; l’harakiri del Movimento 5 Stelle a colpi di espulsioni interne e politiche anti-euro che non tengono conto di una realtà irreversibile; i segnali di malcontento interni al PD, in cui le minoranze mal digeriscono la lontananza creatasi tra Renzi e i sindacati e diversi punti della riforma del lavoro; infine per ultimo, ma solo cronologicamente, il preoccupante dato delle affluenze alle regionali in una Regione, la nostra, in cui i tassi di astensionismo non erano mai stati così elevati.

In un contesto simile sembra ancora una volta che si tenda a non dare la giusta importanza a una verità che non è più possibile trascurare: la partita, quella vera, si gioca in Europa. Finché non si comprende a pieno che l’integrazione europea è una realtà incontrovertibile, dalla quale non si può uscire se non a costo di enormi spese – specialmente dopo che ci siamo dati una moneta unica – e che ha un enorme peso sulle questioni italiane, non si riuscirà mai a pesare sui processi decisionali dell’Unione Europea.
In queste settimane è avvenuto il passaggio di consegne tra la vecchia Commissione Barroso e la nuova Commissione guidata da Juncker. I primi segnali fanno pensare che il nuovo presidente voglia aprire a una maggiore flessibilità, che permetta di allentare la morsa delle politiche di austerity che hanno segnato le risposte alla crisi della precedente Commissione, in cui Barroso troppo spesso chinava il capo di fronte alla volontà di quei capi di Stato – Merkel in primis – convinti che la medicina fosse il rigore. Il nuovo Presidente ha annunciato un piano di investimenti da 300 miliardi di euro che, nelle sue intenzioni, sarà finanziato da un fondo alimentato dalla Banca europea degli investimenti e dai contributi volontari degli Stati membri. La vera novità – rivoluzionaria, è il caso di dirlo – sta nel fatto che i soldi stanziati dai paesi membri non verranno considerati nel calcolo per stabilire se uno Stato sfora o meno il tetto del 3% del PIL imposto al deficit. È certamente solo un primo passo, ma finalmente si fa largo l’idea che per permettere la crescita sia necessaria maggiore flessibilità, riconoscendo che di sola austerità si muore.
Questa è da sempre un’idea portata avanti a gran voce da Matteo Renzi, che, forte dei risultati delle scorse europee, ha iniziato insieme al presidente francese Hollande una guerra all’ortodossia dell’austerity e dei rigidi vincoli di bilancio imposti da Bruxelles.

La partita, ripeto, si gioca tutta lì. Senza ottenere una maggiore flessibilità da parte dell’UE, che permetta di mettere in campo investimenti che mirino alla crescita, per gli Stati in recessione e attanagliati da un enorme debito pubblico – come l’Italia – il futuro non ha luce. I rigidissimi tagli alla spesa imposti ai nostri vari Governi in questi anni, che hanno portato tutta la serie di drammatiche conseguenze che osserviamo in questi mesi nel nostro paese, sono frutto di questa rigida fede nell’austerità.
Continuare a guardare all’Europa come a qualcosa di alieno, di ostile e incomprensibile, cui rivolgersi solo per chiedere di uscire dall’euro, non porterebbe ad alcun risultato. In Europa bisogna giocare per cambiare le regole.

Marco Calcinai