Un venerdì qualunque. In strada, tra i banchi dell’università e tra i corridoi della biblioteca l’atmosfera è sempre impercettibilmente diversa, il venerdì. L’aria è più leggera e persino il traffico sembra meno estenuante. I pensieri si volgono alla leggerezza un po’ frivola e i piani per il weekend si affollano. Un venerdì qualunque. A Parigi, Londra, Bologna o New York.
Erano circa le 22 e io stavo aspettando la metro per festeggiare con i soliti amici la fine dell’ennesima settimana. Poi una telefonata, un amico dalla voce strozzata e preoccupata mi chiede dove mi trovo, dove sto andando e se sono al sicuro. Certo che sono al sicuro, perché non dovrei? E invece non lo ero, nessuno lo era. Ci sono attentati in tutta Parigi, stanno sparando in mezzo alla strada, fai attenzione, corri e torna a casa. La paura mi paralizza e in quel momento non so dove andare, cosa fare, dove essere al sicuro. All’improvviso tutti i telefoni delle persone di fianco a me cominciano a squillare, i volti delle persone si incupiscono, i visi degli sconosciuti in metro si cercano per capire se quello che sta succedendo là fuori sta capitando per davvero. In quegli istanti nessuno sapeva dove si stesse esattamente compiendo la strage, quali erano i luoghi interessati e quale sarebbe stata la fermata della metro più sicura in cui scendere. Io ho scelto di affidarmi al caso. Sono uscita dalla metro e poche centinaia di metri mi separavano dalla casa di un amico. Sono stati i metri più lunghi della mia vita. La strada era praticamente deserta, sebbene mi trovassi a pochi passi dalla Tour Eiffel. Io ho iniziato a correre, senza pensare ad altro che a mettermi al riparo da un pericolo ignoto e inesorabile.
Con me, tutti i parigini per un istante si sono sentiti paralizzati. Uno sgomento che non conosce parole, che non può spiegarsi razionalmente, perché nulla di quello che è accaduto è razionalmente giustificabile. Ringrazio il caso che ha voluto che in quegli istanti non mi trovassi nei luoghi della tragedia, ma continuo a chiedermi: per quanto tempo ancora potremo ringraziare il caso per non essere stati toccati personalmente dall’irrazionalità più bruta e feroce?
La mattina dopo gli attentati sono uscita di casa e ho visto una Parigi quasi spettrale; il sabato mattina in una grande città è sempre caotico, i mercati sono affollati, i turisti passeggiano spaesati, e i bistrot sono gremiti. Quel sabato mattina, pochissime persone per le strade, in metro, davanti ai monumenti. Parigi si è spenta per elaborare il dolore, e io, come tanti altri, ho passato la giornata chiusa nella mia stanza a seguire le notizie del telegiornale, per cercare di dare un nome e un volto all’insensato. Poi però, ho realizzato che nascondermi nelle mie quattro mura non avrebbe estinto la paura e il dolore sarebbe rimasto. E, rifugiandosi nella paura del terrore, quelle 129 persone sarebbero morte invano, per la seconda volta. Questo è ciò che deve aver pensato la maggioranza dei parigini. Ecco perché, domenica Place de la République era gremita: una folla di persone di ogni origine, cultura e religione si è raccolta per dimostrare che la paura non bloccherà una città, uno stato, un’eredità. Un’eredità occidentale che ha fatto sì che la vita fosse il valore assoluto per cui battersi, per cui essere liberi e per cui difendere i nostri diritti. E ciò che ferisce di più di questo attentato è proprio questa svalutazione spietata della vita, di una vita, che avrebbe potuto essere quella di ciascuno di noi. I terroristi inneggiano alla morte, e i francesi rispondono senza avere paura, scendono in strada, camminano con la testa alta e cercano una normalità che, anche se non sarà mai più normale, è la risposta più tagliente che si possa dare a questi tragici avvenimenti.
L’azione più istintiva sarebbe quella di scappare da qui, tornare a casa, tanto più se la tua casa non si trova a Parigi; ma anche questo vorrebbe dire abbassare la testa difronte al terrore, chinarsi e chiedere pietà. Ora come non mai, nessuno deve supplicare pietà, nessuno deve scappare. La paura la senti e la percepisci ad ogni angolo della strada, lo sguardo delle persone è più accigliato ed ogni rumore anomalo provoca un sussulto, ma nonostante ciò tutti escono, respirano la città, si siedono ai tavolini di un bistrot e non temono di sorseggiare una birra con gli amici.
Non si può dare un senso all’insensato, ma non si può vivere nel terrore che l’insensato travolga tutto ciò che ha un senso. Per questo, Parigi riparte e risponde con un grido univoco e fragoroso: solo la normalità può essere la voce con cui rivendicare in maniera altisonante ciò che tutti noi abbiamo perso in questo venerdì qualunque.
Samanta Corti
Studentessa dell’Università Sorbonne