Ho osservato con attenzione gli esiti della consultazione referendaria e credo sia giusto commentare i risultati con qualche breve premessa. Innanzitutto non ho intenzione di dilungarmi sul merito dei quesiti referendari: temo, come spesso accade, che l’informazione abbia spesso ceduto il passo alla propaganda e che, di conseguenza, molti cittadini abbiano attribuito al voto referendario significati che poco avevano a che fare con i quesiti effettivamente posti nelle schede.

Ho trovato pittoresco indire alcuni referendum contro uno degli otto decreti attuativi del Jobs Act, 11 anni dopo l’approvazione della legge: un referendum fortemente voluto dalla CGIL che, sfortunatamente per me che ho ancora una buona memoria, non ebbe particolari problemi al momento dell’approvazione della legge Monti/Fornero, di cui il Jobs Act è nella sostanza un’evoluzione (a mio avviso) migliorativa.
Jobs Act che, è bene ricordarlo, passò in commissione lavoro presso le aule parlamentari con il voto favorevole di 21 parlamentari del Partito Democratico: di questi 14 provenivano dalla CGIL. Ecco, a 11 anni di distanza, non credo fosse necessario l’ennesimo regolamento di conti a sinistra con il Partito Democratico che prova di abrogare le leggi fatte dal Partito Democratico.

Come se queste premesse non fossero bastate a rendere difficile il raggiungimento del quorum, per renderlo impossibile si è ben pensato (nel progredire della campagna) di caricare il referendum di questi ulteriori significati nell’ordine casuale di: A) Spallata contro il governo di Giorgia Meloni; B) emarginazione e isolamento del campo politico liberal democratico per escluderlo da eventuali coalizioni di centro sinistra; C) colpire a indebolire i riformisti dentro il Partito Democratico.

A voler dire una cosa banale, se si vogliono usare i quesiti referendari per picchiare in testa a tre quarti dello scenario politico, poi non c’è da meravigliarsi che l’affluenza non superi il 30% (29,8), perché in tempi diversi, tutti hanno almeno una volta sostenuto che “non andare a votare è un modo di esprimersi sull’inconsistenza dell’iniziativa referendaria”.
Parole dell’ex presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano non le mie, pertanto ai bersagli di questo referendum è bastato stare fermi, come legittimo e prevedibile che fosse.

A chiosa delle premesse, in un sistema costituzionale che prevede che la non partecipazione della maggioranza degli aventi diritto sia causa di nullità, cominciare a prendere di mira, insultare e svillaneggiare chiunque abbia perplessità, non è una strategia vincente: molte persone che erano dubbiose, sono state messe nella condizione di starci davvero a casa (e lo dice uno che a votare c’è andato). Da più fronti della sinistra, e dai vertici delle CGIL, è stato più volte riportato che questo referendum evidenzia una “crisi della democrazia”. Posta comunque una certa disaffezione della popolazione alla politica, credo in realtà che ci sia un uso sbagliato, al limite del manipolatorio, dello strumento referendario: quesiti troppo tecnici, incomprensibili, abrogativi di parti di leggi, non sono materia da poter demandare al popolo, deve esserci l’onere del Parlamento.

Venendo al commento dei risultati: quando si gioca una partita contano i goal, non il numero dei calci d’angolo o il possesso palla, non conta essere i migliori in campo, se poi si perde. Ci può essere al massimo l’analisi della sconfitta, ma questo presuppone, appunto, l’ammettere una sconfitta, non reinterpretare una sconfitta come una serie di vittorie collaterali e spesso immaginarie. In una consulta referendaria conta, innanzitutto, il raggiungimento del quorum. Bene. Ci si è fermati 20 punti prima: facendo più o meno lo stesso risultato di quasi tutti i referendum abrogativi degli ultimi vent’anni, nonostante una massiccia campagna comunicativa per il sì ai cinque quesiti.

Faccio inoltre molta fatica a considerare il numero dei votanti a questo referendum la base elettorale di qualunque campo, largo o stretto che sia. Consultazioni diverse hanno logiche e platee diverse: non risultano paragonabili le elezioni amministrative con quelle regionali, figurarsi confrontare referendum ed elezioni politiche, è follia.

Sappiamo che anche nel Partito Democratico nazionale, pur con un certo spregio della logica e facendo parecchie forzature sui numeri, c’è chi sostiene che i diversi milioni di voti ottenuti dai “sì” ai quesiti referendari eguaglino gli elettori del centro destra alle scorse elezioni politiche. Premesso che continuo a pensare che sia inutile dare ai referendum significati simbolici (ci si pronuncia su quesiti specifici che dovrebbero essere ben fondati) faccio finta di stare al gioco e pongo alcune domande.

In prima battuta, si è così sicuri che i “sì” ai quesiti sul lavoro (circa 12 milioni di voti) rappresentino il solo centro sinistra? Non sarà che come tutti i referendum ci sono comunque degli elettori consuetudinari che votano indipendentemente dall’indicazione di partito o che ancor più semplicemente nei partiti non si riconoscono? E inoltre: chi ha deciso che il perimetro di quello che é l’elettorato del centro sinistra è stabilito dai risultati dei quesiti sul lavoro? Anche perché il referendum numero cinque, quello sulla cittadinanza, ci ha consegnato proporzioni ben diverse. E allora delle due l’una: se si sostiene che il centro sinistra sia quello dei “sì” ai referendum sul lavoro, si deve ammettere che una larga parte di quell’elettorato su un tema “caldo” come quello sulla cittadinanza ha le posizioni di grande parte della destra italiana.

Tuttavia, avendo trascorso la mia vita lavorativa come operaio, peraltro impegnato nel sindacato, mi è molto più facile pensare che i partecipanti a questi referendum siano politicamente molto meno omogenei di quel che si pensa, o si vuol far credere.

Non è un mistero che questi referendum siano stati voluti e promossi dalla CGIL. Non è un mistero che tra gli operai, nelle intenzioni di voto, il Partito Democratico sia al 16% e Fratelli d’Italia al 39%. Non è un mistero che da molti anni le classi operaie e lavoratrici abbiano virato a destra: chi conosce le fabbriche sa che non è infrequente trovare dei tesserati della CGIL con simpatie leghiste o meloniane. Per questo quel 35% di “no” al quesito sulla cittadinanza non può e non deve stupire. Solo che questa analisi, nella sua semplicità, ha il grande difetto di smontare il “mito” delle 13 milioni di persone come base di partenza del fronte di centro sinistra in vista delle prossime elezioni politiche.

Un consiglio, non richiesto, al PD nazionale: non si copra di ridicolo inseguendo miti e leggende. Né contribuendo a crearne. Né impegnandosi in battaglie che hanno più il sapore del regolamento di conti su questioni interne ormai vecchie un decennio. La battaglia sul lavoro in Italia si gioca tutta sulla quantità del reddito, dato che siamo i fanalini di coda per la crescita degli stipendi negli ultimi vent’anni in tutta Europa. I giovani vanno via dall’Italia perché al termine del percorso di studi vedono le loro figure professionali molto più pagate e considerate all’estero di quanto non sia possibile in Italia. La fascia più esperta, dei 40/50enni, va via dall’Italia perché al culmine delle forze e dell’esperienza, qui deve scontrarsi con un mercato del lavoro ancora schiavo di vecchie logiche lavorative e reddituali. E all’estero non ci sono più tutele di quante non ce ne siano già in Italia. Ci sono solo più opportunità. Il compito del centro sinistra dovrebbe essere quello di crearle anche qui.

Stefano Mantovani