“Ah, è la capitale della Romania, vero?”
“Ma cosa vai a fare là in mezzo al nulla?”
“Ti manderemo i tortellini per posta, mangiare bene sarà impossibile!”
“Sì, certo, STUDIARE…”

Sono solo alcune delle decine di reazioni a cui ho assistito nel periodo pre-partenza.
Barcellona, Parigi, Berlino, Lisbona: sono queste città da Erasmus, mica Budapest.
Buda che? Budapest. 
Bucarest? No, Budapest.
Ah, Romania! No, UNGHERIA.

Poi invece succede che quell’aereo lo prendi, lasci dietro di te tua madre col magone, tuo padre con gli occhi lucidi, tuo fratello, una marea di amicizie, il cibo della nonna.

Ma lo sai che questi 6 mesi saranno per te indispensabili, ti scaveranno fino a profondità fino a questo punto inimmaginabili, ti metteranno alla prova, ti doneranno gioie immense.

Qua la prima cosa che fulmina è la lingua: il ceppo è ugro-finnico, la seconda più difficile al mondo.
Un costante balbettio pieno di kappa e vocali.
Parole eterne, nessuna speranza di comprenderne il senso ad orecchio.

La città di Budapest è un decadente gioiello post-sovietico, figlio del grande Impero austroungarico, incastonata nella fredda terra magiara.

budapest

Baciata dalle placide acque del Danubio, che la divide in Buda (est) e Pest (ovest), la città sì estende imponente ma contratta, viva ma al contempo rattrappita in un decadente sogno nazionalista.

Sì, perchè qua nessuno lo dice, ma l’orgoglio magiaro a volte supera la ragione e le aspettative: basta avere un accento neo-latino che subito gli sguardi si fanno storti, i pensieri si accavallano.

Primi di febbraio. Stomaco vuoto. Tempo da perdere.

Alla fine della linea del tram 47 c’è un ABC, uno dei tanti mini-market che costellano la città.

Entro per comprare qualcosa che andasse a riempire il mio frigo e il mio stomaco.

Non essendo particolarmente avvezzo alle spese giro a vuoto per una decina di minuti.

D’un tratto mi sento picchiettare sulla spalla: è la guardia del negozio, che mi abbaia qualcosa in ungherese. Io lo guardo stupefatto, e gli chiedo se può parlare in inglese. Questo continua, come se niente fosse, nonostante stia cercando di fargli capire che la mia barba lunga non significhi male intenzioni. Ad un tratto capisce e lascia perdere, e diventa improvvisamente gentile, indicandomi addirittura la fila per la cassa meno impegnata.

Alla fine ho comprato un’insalata che sarebbe scaduta in due giorni. Spesa 1, Lorenzo 0.

budapest

Che cosa si sa dell’Ungheria in occidente? Sostanzialmente nulla. Anche se quel che si sa non vuol dire necessariamente sia falso: la birra costa poco, ci sono un sacco di belle ragazze, tutti sono scettici verso gli italiani (che, per la cronaca, spuntano da ogni angolo) e il livello dell’Università (che è gratuita) non è comparabile a quello italo-occidentale.

Vedi tutti questi lavori? E’ perché stanno cercando di tenere la città pulita. Qua non vedi uno scippo, un furto, una molestia. Se non fai come dicono passi un brutto quarto d’ora“.

Questo è, più o meno letteralmente, quello che mi ha detto un italiano trapiantato a Budapest da una ventina d’anni.

Primo pensiero: pulita da cosa? La città non è il massimo della pulizia, e poi ad ogni angolo c’è un senza tetto che chiede l’elemosina.

Gli dò ragione sugli scippi: ne ho visti più in tre giorni a Barcellona che in un mese qua, ma questo non si traduce necessariamente in sicurezza.

La verità è che si parla poco di Orban Viktor (alla ungherese: prima il cognome), delle sue leggi discutibili leggi conservatrici, della dignità e dei valori ungheresi.

E quindi è penalmente perseguibile il dormire in strada, a fronte di un sistema di aiuti sociali ai senza tetto inefficiente.

Gli studenti ungheresi che usufruiscono degli aiuti statali non potranno lasciare il Paese prima di aver restituito il denaro utilizzato.

La libertà di opinione è assolutamente sindacabile, sempre nell’alveo di una costituzione modificata a inizio 2012, volta a difendere un’idea puramente magiara della società e delle relazioni con l’Europa e la Russia.

Scottano ancora le ferite ex comuniste: in città è rimasto un solo monumento sovietico, mentre tutti gli altri sono stati spostati in un “Memento park”, una decina di chilometri a sud di Budapest.

Un po’ come nascondere la polvere sotto il tappeto.

budapest parlamento

E, per quanto noi italiani si sia i maggiormente presi di mira da studenti e professori, il luogo comune che vuole gli ungheresi persone poco socievoli, chiuse, sospettose, è rispettato nella maggior parte dei casi.

La clessidra dei sei mesi (che poi saranno 4 e mezzo) ha perso solo qualche granello, ma sono abbastanza pesanti per iniziare a tirare somme più o meno calibrate.

Adoro il modo in cui gli ungheresi ogni sera si fa casino fino a tardi, come non si diano per vinti nel cercare l’originalità in tutto ciò che fanno, come il sistema universitario faccia di tutto per mettere gli studenti in comunicazione l’uno con l’altro.

Non sopporto questa lingua cantilenante, dura e incomprensibile; non sopporto i pregiudizi verso gli italiani; non digerisco gli sguardi storti delle guardie che controllano i biglietti all’ingresso della metro (non sono controllori: sono guardie grosse, e piuttosto incazzate).

Qui, al centro dell’Europa, ad un soffio dal rigore russo ma pure dalla follia spagnola, si incrociano un sacco di sensazioni. Li vedi gli sguardi pieni di vita degli studenti universitari che sognano un futuro in Europa. E quindi in Ungheria, ma non per forza.

Li vedi i trentenni incamiciati che perdono la testa al venerdì sera davanti ad una teenager piuttosto scollata. Li vedi lasciar cadere i freni che mordono per tutta la settimana.

La senti nell’aria. La tocchi, ma senza afferrarla.
Una possibilità.
Come il mio Erasmus.
Una splendida, totale, vivace possibilità.