Nel 2008 ho fatto l’ultima gita di classe, in quarta superiore.
Non è stato niente di indimenticabile, nonostante fossimo in Sicilia, lontani dal grigiore padano, dai libri e dalle banali ansie da liceali.
C’erano tutti i presupposti perchè ci si divertisse, insomma.
E invece, un improvviso tremito nella forza mi ha risvegliato.
Una mia compagna, di origini calabresi, ha avuto una “gradita” (azzarderei graditissima) sorpresa da parte del suo ragazzo, che si è presentato all’hotel in cui stavamo tutti, recidendo la bolla già precaria che avevamo costruito in quella che sarebbe poi stata la nostra ultima uscita di gruppo.
Ma non solo.
Questo ragazzo (e lo chiamo così non tanto perché nessuno di noi fosse fisicamente uomo, quanto perché anche la più remota qualità che rende un uomo degno di essere chiamato così era totalmente assente in lui) — che per fortuna la mia mente ha fatto sbiadire nelle fattezze, ma non nella sostanza – si è costruito un avvincente film tutto suo, secondo cui io stavo insidiando la sua ragazza.
Perché? Perché l’avevo salutata.
Scendendo le scale dell’hotel, in un momento in cui loro erano insieme.
L’avevo salutata.
Perché.
L’avevo.
Salutata.
Da quel giorno ho capito quanto il femminismo fosse per me una prospettiva necessaria.
Magari complicata, misteriosa, imbarazzante e lontana.
Ma sicuramente necessaria.
Sono passati ormai 13 anni da quel giorno, e seppur abbia voluto dimenticare personaggi e voci, è stato quello il grilletto che mi ha reso l’uomo che sono oggi.
Ho visto da vicino la pretesa di possessione, la mancanza di prospettiva, il respiro che si blocca perché fino a quel momento la tua vita era senza conseguenze.
Ma da lì iniziava l’angoscia esistenziale che caratterizza tutt’oggi la nostra generazione.
Cambiare la cultura
Introdurre leggi non basta: bisogna cambiare la cultura.
Una cultura che ancora oggi riflette tendenze maschiliste e opportuniste: il ricatto sessuale, il confinamento della donna nei ruoli di cura, la netta divisione di genere sin dall’infanzia, il catcalling per le strade, la paura di “essersela cercata” — qualsiasi cosa voglia dire — il tutto intriso di un paternalismo viscido e ammiccante, finto baluardo di una morale ancora più inadatta, retta da un punto di vista parziale e senza gradazioni.
Il POV (Point Of View) non è solo una prospettiva pornografica, ma una perversione sociale; è la visuale ristretta comunemente imposta, un processo culturale ininterrotto e subdolo, che ha reso indivisibili cause e conseguenze, rendendo sistematico e strisciante l’effetto finale — a tratti totalizzante — delle donne come appendici.
E il dibattito è ancora lontano dall’essere inclusivo — così come il femminismo intersezionale si augurerebbe — più impegnato a creare il classico parallelismo tra opposti radicali, che si combattono senza comunicare.
Il tutto esasperato dalla peggiore crisi sanitaria che la nostra generazione abbia mai vissuto, capace di far esplodere il precario tessuto socio-famigliare in cui le donne, troppo spesso, devono rinunciare a indipendenza economica, carriera e spazi di libertà.
Ma non solo.
Costruire una consapevolezza trasversale non aiuta solo le donne, ma estende lo sguardo a tutti i gruppi da sempre discriminati per etnia, religione, classe sociale, disabilità e orientamento/identità sessuale.
Insomma, la battaglia per la consapevolezza di quello che le donne subiscono è il primo passo per capire le società che stiamo costruendo.
Finiamola di chiederci perchè dovrebbe interessarci, e guardiamoci bene attorno: ci accorgeremo che il progresso aspetta solo noi.
Perchè il progresso non può più essere messo in attesa.
Come ci si salva
Decenni di dibattiti e lotte hanno fatto la loro parte, ma non basta.
Vanno mantenuti i dibattiti e rinfocolate le lotte, ma senza staccare lo sguardo dalla nostra quotidianità, capace di ricostruire disuguaglianze e discriminazioni non appena ci distraiamo.
Lavoro, famiglia, sport, arte, cultura, politica: sono tante le aree in cui presidiare e denunciare le prevaricazioni, che per lo più sono silenziose e indirette, con vocaboli e azioni secolarizzate.
Se la legge non basta, è l’umanità che deve prendersi l’impegno di questa lotta che riguarda tutti; è la cultura, la provocazione, il riscatto dei punti di vista non dominanti, degli approcci alternativi al senso comune.
Umanizzazione contro oggettivazione, indipendenza contro sfruttamento, emancipazione contro esclusione.
Potersi salutare, potersi amare, potersi dire addio.
Imparare ad essere uomini senza voler essere per forza maschi.
E’ così difficile?
Lorenzo Gualandi