di Dario Mantovani

Una volta c’erano i cremlinologi: esperti nel decriptare quelle poche informazioni che trapelavano dal Cremlino, quel poco che lasciava presagire un vastissimo mondo sommerso a cui bisognava dare forma, sostanza e un po’ di colore. A Molinella c’erano e ci sono i socialdemocratologi: anch’essi esperti nel dare forma a quel poco che si vede: con l’evidente problema che quel poco che si vede, oggi, è in realtà tutto quello che c’è.

Ho già detto in più d’una occasione che a Molinella esiste un mondo socialdemocratico (fatto di corpi intermedi, associazioni di categoria, cooperativismo, etc) ma rischia di non esserci più, da qui a pochi anni, un partito socialdemocratico: innanzitutto perché si è persa la capacità di tradurre in voti il capitale di rappresentatività che stava proprio dentro a quei corpi intermedi: nella sostanza, nel segreto dell’urna, poi ognuno fa quello che gli pare, come giusto che sia. E il 14% delle ultime elezioni amministrative (quarto partito a Molinella) a cui non è seguita una riflessione autocritica, rischia di non invertire un trend ormai consolidato.

Qualcuno potrebbe chiedersi quali siano le mie ragioni, nell’inserirmi in questi ragionamenti: non hanno tutti i torti. Non posso più ricandidarmi per sopraggiunti limiti di legge e le prossime elezioni amministrative non mi vedranno in campo. Temo però di non potermi tirare indietro dinnanzi a una bella riflessione sulla qualità della democrazia rappresentativa e a quali conseguenze potrebbe portare la sua dissoluzione anche a livello locale: e non ho alcun dubbio che la dissoluzione fisiologica della socialdemocrazia locale ci porta più vicino a fenomeni degenerativi della democrazia rappresentativa, e non più lontano.

Il problema è che qui abbiamo a che fare con un caso di incapacità di gestione della realtà: in poche parole, i socialdemocratici locali stanno sbagliando tutto, dalla comunicazione all’analisi della realtà financo alla formazione di una nuova classe dirigente. E non ironizzo sui voti “sbagliati” in Consiglio Comunale, perché gli errori, quelli sì, possono capitare.

Diranno i miei quattro lettori: cosa c’è di nuovo rispetto alle elezioni del 2019, che hanno detto quel che hanno detto? C’è di nuovo che dopo un risultato così ampiamente negativo c’è aspettativa, su un cambiamento possibile. Anche in virtù della stima per le intelligenze coinvolte nel nuovo corso.

Invece  siamo alle solite: cioè al “rovattismo” (mi si scuserà il neologismo che descrive lo spleen del quinquennio 14/19, e mi scuso anche con Rovatti per la semplificazione, che le colpe non sono mai di uno solo) declinato in maniera più urbana.

Vado per pochi punti esposti in maniera sintetica pur correndo il rischio di banalizzare: il “prima Molinella”, che vale il “prima Casalfiumanese” piuttosto che il “prima Trapani” magari 40 anni fa era un’idea originale. Adesso lo fanno tutti e questa pappetta di localismo da sagra dello stinco del santo rionale non può essere presa per una roba seria. Molinella è dal 2014 in crescita nel reddito medio pro capite, ma in un contesto di crescita ancorato ai livelli della città metropolitana di Bologna. Un tessuto produttivo che vede una grandissima parte del risultato complessivo legato alla capacità di portare prodotti da Pechino a Brasilia, passando per Pretoria. Vale anche per le nostre industrie locali e per il loro indotto. Nella sostanza: non si salva da sola neanche l’Italia. Figuriamoci una Regione. Figuriamoci un comune.

È poi un errore politico, (“molto peggio di un crimine” come diceva Tayllerand) non aver capito i fenomeni di mutamento demografico della propria comunità interconnessi alla globalizzazione:  innanzitutto perché in un mondo globalizzato, dove le merci corrono, corrono anche le persone. Pensare che, dopo mezzo secolo di stabilità demografica senza arrivi e senza partenze, questa logica potesse andare avanti, è follia. E non è un discorso sulla presenza di cittadini extracomunitari (che a Molinella superano di poco il 6%), bensì una riflessione sulla composizione della comunità: ogni anno muoiono circa 200 cittadini, solo parzialmente colmati da nuove nascite (e queste è un problema italiano, dicono i dati). I dati sulla demografia rimangono costanti perché dalla cintura di Bologna arrivano ad abitare qui tantissime persone che si muovono sull’asse Bologna/Portomaggiore. Vengono qui per il rapporto tra qualità della vita e costo della vita. Oltre al grande boom dei prima anni 2000 ogni anno c’è quindi un forte ricambio della composizione della comunità. Ormai la metà (più della metà) dei cittadini molinellesi ignora totalmente le parole d’ordine che hanno marcato questa comunità per larga parte del ‘900: iniziare un percorso all’insegna di quelle parole d’ordine vuole dire fare un gigantesco taglia fuori al 50% dell’elettorato.

Oltre alla sciocchezza per cui dovremmo convincere i  nostri figli, che studiano e si preparano dentro la cornice di un mondo veloce e connesso, a studiare esclusivamente a Molinella, figliare esclusivamente a Molinella, lavorare esclusivamente a Molinella e crepare (si spera il più tardi possibile) a Molinella: questa visione del mondo fa assomigliare Molinella più a un carcere, che a un paese. Io spero (e lavoro) perché chiunque voglia trovare risultati e soddisfazioni sul proprio territorio trovi qui quel che cerca, ci mancherebbe: ma dentro alle logiche del mondo che c’è, non dentro quelle degli anni ’70.

Bisognerebbe poi omettere, per carità di patria, lo stile comunicativo (anche sui social) con cui viene comunicato tutto questo: oltre ad un ritardo di 7 anni sulle altre realtà locali che hanno cominciato un poco prima ad utilizzare gli strumenti della contemporaneità, viene il dubbio che a voler parlare solo di disegnini, film e murales siano loro, peraltro andando sul terreno di scontro che noi abbiamo scelto e in cui loro sono caduti mani  e piedi. Così mentre noi parliamo di scuole ristrutturate e disegni, di nuovi centri sportivi e murales, del piano di manutenzione stradale e di Drive-in, i socialdemocratici locali si concentrano solo A) sulla parte meno faticosa da comprendere B) su quella più adatta (per noi) per fare operazione di marketing e C) finiscono per contribuire a definire loro stessi come quelli che fanno opposizione sui temi marginali (“i modi definiscono l’uomo” ma anche “i temi definiscono l’uomo”).

Insomma, tutto sbagliato, tutto da rifare. Non ho la pretesa di essere ascoltato ma questa non è la via” per riguadagnare consenso e, se mi si permette, avere tra le proprie fila qualche giovane leva che non sia in un qualche modo a libro paga in qualche corpo intermedio o attività collaterale al sistema politico, aiuterebbe, vuoi mai che si ci sia qualcuno che fa politica per solide motivazioni ideali o molto più banalmente per hobby.

Ad oggi ritengo che la dissoluzione della socialdemocrazia locale sarebbe una danno per la comunità molinellese (anche perché ho ben presente le alternative che offre il mercato locale). Questo articolo può sembrare un attacco, anche duro: non lo è. È un invito a tornare a praticare la politica sul piano della realtà.

Quando Berlinguer nell’84 a Verona si prese i fischi del congresso del PSI, quei fischi furono certamente un evento lacerante: ma furono anche il tentativo di riportare il PCI sul piano della realtà, data l’involuzione della linea politica di quegli anni che andò a sbattere, proprio perché la realtà non viene mai meno, sul referendum sull’abrogazione del taglio dei punti della scala mobile. Che andò come andò.

Io non ho alcun desiderio distruttivo nei confronti della socialdemocrazia locale: per certi versi mi converrebbe rimanesse marginale. Temo non converrebbe al paese. Li vedo occuparsi di cespugli e di sacchetti fuori dai bidoni: il mio (e di molti altri) è un auspicio affinché tornino presto a occuparsi di cose più rilevanti, cambiando analisi quanto prima, tornando alla realtà.

Se questo non avverrà, dolendomene, a questi richiami, a questi fischi, certamente non mi potrò unire.

Ma solamente perché non so fischiare.