di Roberto Paltrinieri
No non occorreva la pandemia, non occorrevano ulteriori prove o conferme: però sono arrivate, forti e chiare, tanto le prove quanto le conferme, a ribadire, in un momento tragico, un’ovvietà: il lavoro è un bene comune, a tutti gli effetti, senza se e senza ma.
Perché sarebbe stato sufficiente – è tutt’ora sufficiente – rafforzare la nostra consapevolezza circa il fatto che il lavoro non è solo la differenza che intercorre tra una vita dignitosa ed una che non lo è, non è solo il mezzo propedeutico a creare ricchezza, non è solo materia di studio, non è solo terreno di confronto, quando non di scontro, tra il mondo imprenditoriale ed il mondo dei lavoratori, non è solo l’esercizio di un’attività finalizzata a soddisfare bisogni, individuali o collettivi che siano.
E’ un patrimonio comune semplicemente perché è tutto questo contemporaneamente ed indissolubilmente.
Il mondo del lavoro nel corso degli anni si è costantemente settorializzato, frammentato: una sorta di big bang sociale ed economico che fa del caos le uniche coordinate di riferimento senza ancora intravedere un equilibrio che possa ritenersi diffuso, solido e duraturo: un numero di possibili scenari contrattuali percorribili nel rapporto tra Datore di Lavoro e Lavoratore che forse oltrepassa il ragionevole, diritti e tutele riconosciute (quando riconosciute) ai lavoratori in modo estremamente eterogeneo in funzione del loro status di pubblico, privato o autonomo, difformità di trattamento – per territorio, per genere, per settore merceologico – spesso enormi, interpretazione dei doveri non di rado parziale quando non meramente speculativa, finalità generali difficilmente percepibili, progettualità labili e visioni sociali di medio lungo periodo assenti.
Parallelamente si è fatto strada un concetto ad oggi non più nuovo, ma sicuramente ancora giovane: quello della flessibilità. Un’idea, quella della flessibilità, vista da ampi settori unicamente in un’ottica negativa. Lo diciamo senza tentennamenti, non è il nostro caso. Noi pensiamo al concetto di flessibilità in un’accezione positiva, perché il mondo del lavoro, e non solo, è cambiato profondamente negli ultimi 30 anni ed oggi si muove su coordinate molto diverse rispetto agli anni 80, chiedendo di conseguenza risposte e modelli nuovi. Per poter far sì che la flessibilità rappresenti un valore occorre però che tutte le componenti del mondo del lavoro ne indirizzino l’evoluzione lungo un percorso dove progettualità, regole chiare e coerenti, e, soprattutto, la dignità delle persone, siano, per tutti, dei capisaldi. In mancanza di ciò l’idea stessa di flessibilità finirà col diventare inevitabilmente lo strumento principe per visioni prettamente speculative.
Siamo del resto persuasi che cercare il senso compiuto di una cosa, qualsiasi cosa, limitandosi all’interazione con un suo frammento parziale non sia improbo ma sia impossibile. E nel momento in cui il lavoro dovrebbe essere la nave da crociera sulla quale far viaggiare l’evolversi della società, dei suoi equilibri, della sua capacità di creare benessere diffuso, assistiamo all’affannoso prodigarsi di chi la nave da crociera intende realizzarla legando tra loro tante scialuppe.
E siccome tra gli effetti positivi dei momenti di grande difficoltà c’è anche la capacità di offrirci visioni della realtà purificate dal superfluo, ecco che (anche) la pandemia è venuta a ribadirci che un problema, per essere risolto, necessita di avere confini chiari, ben identificati. La frammentarietà e le visioni limitate ad ambiti circoscritti che caratterizzano oggi il mondo del lavoro sono l’antitesi di ciò che occorrerebbe, ovvero visione d’insieme, progettualità, lungimiranza.
E, soprattutto, la capacità e la volontà, da parte di tutti, di essere coesi, di essere comunità, di essere Paese.
Buon Primo Maggio